Elio Colleoni
STANZA PERSONALE
Era ormai passato quasi un mese da quando era successo... quello che era successo. Alla fine, non me n'ero andato da scuola, ma non perché qualcuno avesse accettato la mia condizione.
Il punto è che, dopo che la preside mi aveva addormentato e condotto in infermeria e dopo che le diverse microfratture di cui non mi ero nemmeno accorto erano state curate, mi ero reso conto di non avere le palle per dire che cosa ero diventato. Sì, era una mossa da codardi, ma se aveste vissuto un periodo della vostra vita per strada per poi uscirne faticosamente, non vorreste tornarci, ve lo garantisco.
Pur con questa consapevolezza, in realtà non avevo nemmeno le palle di tornare a lezione e di fare finta di nulla. La preside mi aveva concesso due settimane di riposo, ma la mia voglia di esistere più passava il tempo più scemava.
Certo, non avevo ammazzato nessuno. Per ora. Ero praticamente una bomba ad orologeria con un cronometro sufficientemente accurato. Mi avrebbero dovuto rinchiudere e buttare la chiave. Va bene, lo zio Gianni era riuscito a vivere per anni senza ammazzare nessuno. Questo a detta sua però, noi mica lo sapevamo con certezza. E poi, arrivati a quel punto, non sapevo più se fidarmi del ricordo che avevo di quell'uomo, anzi licantropo.
Non era neanche più venuto a farmi visita in quelle settimane. Beh... A dirla tutta non è che fossi proprio sicuro. Nelle due settimane successive alla prima trasformazione, non ero esattamente nel pieno delle mie facoltà. Anzi, era già tanto che non fossi volato giù dalla finestra della mia camera. Mi piacerebbe dire che non l'avevo fatto apposta, che ero in preda allo sconforto e quindi non ero lucido, e che alla fine dei conti c'erano delle ottime ragioni per cui mi ero strafatto di latte di unicorno, ma starei mentendo: volevo semplicemente strafarmi di latte di unicorno per avere un bel trip che mi facesse dimenticare tutto. Ma purtroppo, non era andata come speravo.
Dovete sapere che il latte di unicorno è letteralmente latte munto, beh, dagli unicorni. Questi animali sembrano tanto puri e innocenti, ma in realtà è solo perché hanno dei poteri psichici che li fanno apparire così, poteri che consentono loro di poter incornare in santa pace lo sfortunato predatore che ha deciso di cibarsene mentre quello si sta facendo un bel viaggione. Di fatto, insomma, sono dei veri stron*i. Solo gli Eladrin, gli elfi della Selva Fatata, sono riusciti ad addomesticarli a furia moine, ma li trattano più che altro come animali da compagnia che non per utilizzarli come bestiame. Purtroppo, ormai quasi tutta la Selva Fatata è vittima del dominio dei clan dei troll, che sfruttano gli Eladrin per produrre il latte di unicorno. Come potrete immaginare, il latte di questi animali risente dei loro poteri psichici ed è un potentissimo allucinogeno. I troll lo usano durante i loro riti, ma lo commerciano anche, perché è molto efficace sia come droga per l'intrattenimento che come booster per le magie (il che è assurdo, perché poi i maghi che lo utilizzano diventano sì più potenti, ma completamente fuori di sé). Pare che sia anche in grado di rievocare in forma psichedelica ricordi cancellati anche dal più potente incantesimo di memoria (il famoso Tu non ricordi; altro tempo frastorna / la tua memoria; un filo s’addipana di Montale). Ovviamente, è estremamente rischioso assumerlo ad alte dosi, perché brucia completamente il cervello e causa forte dipendenza: la comunità magica è troppo piena di sé per avere dei servizi come i SERT, ma se ci fossero sarebbero pieni di gente che cerca di smettere di rifugiarsi in un mondo fatato che non esiste.
Ora, nella mia vita c'erano poche cose che non avessi provato, e il latte di unicorno non era una di quelle: sapevo già come dosarlo, come diluirlo per renderlo meno dolce (è imbevibile preso al naturale, fa venire la nausea da quando è zuccheroso), cosa fare per mettere in sicurezza la stanza eccetera. La cosa migliore sarebbe stata avere qualcuno vicino a me, ma poco male, tanto in realtà non mi interessava molto la mia sorte. L'ultima volta che l'avevo preso, manco a dirlo, era stato con Mic e Condorcet, mentre la Merkel ci sorvegliava da "parzialmente sobria" (meno male che c'era anche lei, se no chissà che cosa avrebbe combinato Mic). In realtà era stato per far provare Condorcet, ormai io e Mic avevamo smesso con certa roba pesante. Perciò, quando girovagando nella foresta avevo trovato i cadaveri dei troll, avevo subito riconosciuto il contenuto della boccetta nella tasca di uno di loro e quasi in automatico me l'ero intascato, come se avessi presagito come sarebbe andata a finire. Inutile dire che avevo pensato che in realtà l'avrei tenuto lì senza farci nulla. Come no.
Il mio primo trip non era stato nemmeno male, anche se, quando ero tornato abbastanza lucido, mi ero ritrovato senza capire come o perché con il grembiule di Taira addosso - sì, ce l'avevo ancora - deturpato dal disegno di un ananas gigante con la scritta "Stiamo arrivando". Mi sembrava di ricordare una sorta di ananas alieno, ma tutto nella norma.
Solo che, al quarto giorno, avevo cominciato a percepire che qualcosa non andava. I miei viaggi erano interrotti da pareti ricoperte di sangue, tamburi, incisioni rupestri e bisbigli. Era qualcosa che avevo già visto, mi sembrava in un sogno, ma non era particolarmente piacevole. D'altra parte, ormai avevo cominciato e se non stavo almeno qualche ora nel mio mondo personale fatto di ananassi cominciavo a sentirmi male. Le visioni, però, continuavano a riproporsi con sempre più insistenza, finché non mi resi conto che forse non erano frutto del trip, ma ricordi.
Un giorno, la visione mi si presentò per intero.
Mi trovavo in una caverna ricoperta di sangue. Non potevo essere certo che lo fosse, ma mi sembrava veramente così. Sentivo una sorta di sussurro, accompagnato dal suono di tamburi, che non erano certo come quelli dei troll. Mi sentivo molto strano, come se avessi addosso qualcosa di pesante, ed effettivamente era così: indossavo una sorta di mantello fatto dalla pelliccia di lupo. Sentii chiamare il mio nome e avanzai, finché non mi trovai in uno spiazzo più largo. La caverna si apriva verso l'alto, lasciando intravedere da uno spiraglio roccioso la luce della luna. Le pareti erano ricoperte di incisioni rupestri di uomini e cani (o, a questo punto, più probabilmente lupi). Davanti a me vidi quattro persone, due uomini, una ragazza e una donna adulta che suonavano i tamburi e cantavano una litania mistica. Sobbalzai, perché il più anziano di loro era lo zio Gianni. Parlarono e io non capii nulla di quanto stavano dicendo, finché il prozio avanzò, dicendomi in dialetto:
- La mòrt de la pegora l'è la ìta del lüf*. Portalo con te e rendigli onore -
E improvvisamente, avevo sentito la pelliccia che avevo addosso fondersi con la mia pelle, fino a rientrarvi. Avevo urlato e mi ero dimenato, ma non riuscivo a muovermi come volevo. Sulle pareti della caverna, cominciai a vedere... degli ananas parlanti? Ok, questo doveva essere opera del latte di unicorno. Feci giusto in tempo a notare la figura di mia madre arrivare di corsa, prima che la mia testa si tramutasse in ananas e venisse affettato per diventare una macedonia cosmica.
Non ricordo esattamente la fine del viaggio, ma quando mi "svegliai" ero nella vasca da bagno, immerso in una marea di paperelle di gomma, ananas - ovviamente - e detersivo per i piatti.
"Direi che può bastare per oggi" pensai, facendo sparire le paperelle e gli ananas con un incantesimo e facendomi la doccia per ripulire tutto. Ma in realtà poteva bastare in generale, perché il contenuto della boccetta del troll era finito. Passai i giorni successivi a smaltire la crisi d'astinenza in uno stato pietoso, perennemente davanti al cesso, alternando febbre a momenti di apatia completa. La notte, quando stavo un po' meglio, andavo di nascosto a sgraffignare cibo in cucina. Un giorno ero stato beccato da Ylla, che all'inizio aveva pensato ad un qualche malintenzionato e mi aveva picchiato con il mattarello, ma alla fine era stata mossa a pietà (forse aveva capito vagamente il mio stato, anche se non le avevo detto nulla) e aveva cominciato a farmi trovare due pasti al giorno fuori dalla porta della mia stanza - tutti gustosissimi anche se facevo fatica a mangiarli per intero. All'alba del primo giorno di lezione, ero in uno stato semidecente: peggio del mio solito, ma meglio dei giorni precedenti alla scorsa luna piena. Assurdo che cominciassi a scandire il tempo così.
Il tempo passato davanti alla tazza del water, comunque, mi aveva dato tempo di riflettere sulla mia visione. C'era anche mia madre che sapeva. Sapeva e non mi aveva mai detto nulla. Lo zio Gianni l'aveva accennato, quando era venuto a trovarmi, ma questa era la conferma.
Avevo smesso di considerare mia madre un esempio da ormai quindici anni, ma questo era stato un grosso colpo. Era in realtà proprio nel suo stile, quindi non ero sorpreso. Ad ogni modo, adesso ero abbastanza incazzato: le volevo un gran bene, per carità, ma dovevamo chiarirci. E poi avevo ancora dei dubbi: perché lo zio non mi aveva morso per farmi diventare un lupo mannaro? Perché per anni non mi ero trasformato?
Quei pensieri, mio malgrado, mi rincuorarono parzialmente. Forse mi era tornata un po' di voglia di vivere. Il che era un bene, perché non potevo continuare così: a lezione perdevo sempre il filo, mi dimenticavo di dare i compiti e una volta mi ero presentato senza lavarmi per quattro giorni (non puzzavo, ma poco ci mancava. Inaccettabile).
Così, decisi che le avrei scritto. Dato che non rispondeva mai al telefono, avrei usato Un uccellino mi ha detto. Scrissi il mio messaggio e lo affidai all'uccello che avevo evocato, un grosso corvo che mi continuava a pizzicare il naso, metafora del mio stato d'animo.
Passarono giorni e poi settimane. Stavo per perdere le speranze, ma quando rientrai in camera, la sera, vidi una gazza attendermi sul davanzale della finestra. L'uccello mi porse la zampina, mi fece l'occhiolino e sparì. Lentamente, scartai il messaggio.
Ciao Eli,
mi dispiace non esserti riuscita a risponderti prima. Spero veramente che tu stia bene. Vediamoci il 19, sarò a Roma, ti va?
Un bacio,
la mamma.
Era il giorno di luna piena.
*La morte della pecora è la vita del lupo